Il grande sviluppo del commercio internazionale degli ultimo anni (la così detta “globalizzazione” dell’economia) ha portato alla ribalta il problema delle condizioni di lavoro nei paesi in via di sviluppo. Come noto, in questi ultimi anni, molte imprese europee ed americane hanno “delocalizzato”, cioè spostato i propri impianti in paesi arretrati, nei quali trovano mano d’opera a basso costo; la delocalizzazione provoca la perdita di posti di lavoro che, da più parti, si vorrebbe arginare per mezzo di politiche protezionistiche.
Bisogna però osservare che la c.d. delocalizzazione è un processo fisiologico; da sempre, le lavorazioni “work intensive” tendono a situarsi nei paesi in cui la mano d’opera costa di meno.
Inoltre, se ben gestito, nel medio termine il fenomeno può rivelarsi in un vantaggio per tutti: i paesi più evoluti possono compensare le predite spostando i propri investimenti sulle nuove tecnologie, i servizi o le produzioni di alta qualità (le così dette “eccellenze”) poco influenzate dal costo della mano d’opera.
Per parte loro, i paesi arretrati man mano che – grazie agli investimenti esteri – migliorano le proprie condizioni, diventano a loro volta acquirenti di servizi ed “eccellenze”, stimolandone la produzione.
Il processo è in atto e si può ragionevolmente prevedere che, entro breve, si potrà stabilire un nuovo equilibrio, con reciproca convenienza.
Purtroppo, non pochi investitori europei ed americani approfittano della disorganizzazione di molti paesi del terzo mondo – spesso anche della corruzione delle locali classi dirigenti – per attuare forme di sfruttamento selvaggio, fatto di: salari di sussistenza, lavorazioni pericolose svolte senza nessuna protezione, esproprio violento di terreni, distruzione delle risorse naturali, avvelenamento del suolo e delle acque.
Comportamenti del genere – ampiamente diffusi – consentono di realizzare grandi profitti agli investitori che li attuano ma, per converso, ritardano la crescita economica del terzo mondo – che dovrebbe rappresentare il ritorno della delocalizzazione – lasciando al suo posto degrado, frustrazioni e rancori da non sottovalutare.
In definitiva, senza enfasi, si può affermare che queste forme di sfruttamento selvaggio delle persone e dell’ambiente avvantaggiano qualcuno nell’immediato, a scapito del futuro di tutti.
La comunità internazionale ha preso coscienza da tempo della gravità del problema, ma la reazione fino ad oggi è stata debole ed incerta: gli USA si sono dotati di uno strumento – il Trade and Developement Act – che consente all’amministrazione doganale di bloccare le merci prodotte con lavoro forzato o minorile (almeno quello), la Gran Bretagna ed i Paesi Bassi hanno varato alcuni provvedimenti amministrativi, tendenti ad incoraggiare l’adozione di “standard etici” da parte dei soggetti che vanno ad operare nel terzo mondo.
In tutto il resto del mondo – Italia compresa – fino ad ora ci si è limitati a parlare di “etichette etiche”, che dovrebbero attestare il rispetto da parte dei produttori di alcuni standard minimi in materia di diritti dei lavoratori e tutela dell’ambiente.
Si spera che il pubblico mostri di preferire i prodotti etichettati e, di conseguenza, i produttori siano spinti dalla stessa logica del mercato ad adottare gli standard proposti.
Studi recenti dimostrano che l’etichettatura “etica” potrebbe effettivamente indirizzare le scelte di molti consumatori e, quindi, condizionare i comportamenti dei produttori, ma realizzarla non è impresa semplice.
Le etichette dovrebbe essere rilasciate da osservatori qualificati, che dovrebbero essere in grado di condurre controlli sulle condizioni di lavoro all’interno di stabilimenti posti in altri paesi.
Questi controlli sarebbero di per sé complessi e dispendiosi inoltre, potrebbero essere respinti dai governi dei paesi interessati, come ingerenze nei propri affari interni.
La realtà è che i governi di molti paesi arretrati mostrano un sorprendente disinteresse per le sorti dei propri cittadini ed incoraggiano gli investitori stranieri a fare tutto ciò che vogliono, anche a scapito dei più elementari principi di giustizia (esemplare, ma non eccezionale, il caso di un paese africano, produttore di petrolio, che vieta ai dipendenti delle compagnie petrolifere di convenire in giudizio i datori di lavoro). Spesso i lavoratori stessi, estremamente indigenti e timorosi di perdere i loro pochi guadagni, mostrano di non gradire ingerenze di terzi.
Le difficoltà come si vede non mancano, potenti interessi difendono lo “status quo”, ma altrettanto forte è l’esigenza che primo e terzo mondo stabiliscano rapporti economici fondati sul rispetto di principi etici, per il bene di tutti.
Roberto Macchioni