La guerra e la de-escalation

Nel DNA di noi italiani il concetto di “pace” dovrebbe essere la cifra principale dopo le esperienze estreme delle due guerre mondiali che hanno tragicamente segnato la storia del secolo scorso ed in particolare il nostro Paese.

L’ “idea” della “guerra” è ben diversa dall’esperienza che del conflitto armato fanno i paesi coinvolti.

Concettualizzare, scandalizzarsi per gli orrori ovvi che partoriscono tutte le guerre, cercare di capire chi ha iniziato l’orrore, chi ha subito per primo la violenza può essere un importante esercizio intellettuale che può avere una finalità nobile o una sciagurata caduta nel vuoto, sterile e pericolosa per tutti.

La storia insegna, ci siamo detti tante volte. L’olocausto, l’orrore, la discriminazione, le leggi razziali contro gente innocente, mai più, mai più ci siamo detti.

Noi europei, noi italiani, siamo per l’accoglienza, per la mediazione… Questo il nostro dire e sentire comune, questa la nostra identità.

Nei nostri musei si può ancora percepire l’odore acre della morte di esseri umani contro altri esseri umani. Le giornate della memoria, servono proprio a “non dimenticare”. Le immagini orribili delle armi, dei cadaveri nelle fosse comuni, degli scheletri ancora impietosamente in mostra, erano o, sarebbero dovute essere a questo punto, le armi della deterrenza, “del mai più, mai più”.

La filmografia, la cultura in ogni sua forma espressiva per decenni ci ha fatto percepire la guerra come l’aberrazione a cui l’uomo evoluto non avrebbe più prestato il fianco.

Quello che stiamo sperimentando da qualche settimana è, però, quanto di più imprevedibile potesse accadere a chi ai valori di pace, rispetto dei civili di ogni nazionalità o paese, che sia in guerra o no, ci ha creduto sinceramente e continua a crederci.

Certo se un paese attacca il tuo territorio con le armi è purtroppo con le armi che devi difenderti. Già questo, però, declina il fallimento della politica. Della diplomazia. Delle giornate della memoria e di tutto quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto. Perché c’è sempre una terra di mezzo tra l’inizio della violenza e dell’odio e la guerra vera e propria tra due paesi. Questa terra di mezzo non è stata occupata, in questi anni, dalla politica e dalla diplomazia che hanno fallito decisamente la loro missione nel conflitto russo-ucraino. Sono anni che, in sordina, senza quasi comunicazione da parte dei media, si consumava un odio feroce tra due stati.

Sono pochi i giorni, invece, che ci vedono protagonisti di orrori e di racconti di guerra, praticamente alle porte di casa.

Non sapevamo di migliaia di morti che gridavano giustizia in questi anni quasi ai nostri confini.

C’erano degli orrori nascosti di cui non eravamo a conoscenza.

Ma ora, ora che sappiamo non possiamo fare finta di nulla. Non possiamo non usare le migliori armi di cui dovremmo essere dotati: la persuasione, l’ostinazione nel credere alla via diplomatica. Non possiamo non mettere acqua anziché benzina nel fuoco della guerra.

E’ troppo tardi? Abbiamo inviato le armi? Saremo presto in una catastrofe umanitaria ed in un’economia di guerra? “Faremo la fame” come ci ha augurato qualcuno a noi europei?

No , noi pensiamo di no. Noi che crediamo ancora nel valore intrinseco della nostra Costituzione scritta con il sangue di chi non ha giocato alla guerra mettendosi una maglietta verde militare o si è fatto crescere la barbetta nel suo comodo salone di casa.

Noi crediamo che ci sia ancora la terra di mezzo, per fermare altre morti, altri orrori, altre giornate di terrore riservate a vittime vere, a bambini e famiglie distrutte, a profuganze reali.

Noi italiani, possiamo ancora fare la differenza , se lo vogliamo. Se ci ricordiamo chi siamo. Non solo europei, non solo alleati Nato, ma italiani, prima ancora cristiani.

Non dobbiamo assecondare venti di guerra per sentirci solidali. I veri eroi sanno fermarsi e far prevalere in tutti la ragione alla violenza. Le guerre non sono mai giuste. Pensavamo di avere gli anticorpi per questo, ma queste pagine di storia nazionale ci dicono che il cammino del “mai più” non è ancora finito.

Cristina Palumbo Crocco

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